di Fabio De Propris
Il pacco che contiene un bene prezioso, che lo protegge e lo nasconde con la propria scorza è l’oggettivazione dell’immagine del nostro corpo che contiene il tesoro del nostro “dentro”, di ciò che viene detto “interiorità”.
L’invenzione dell’interiorità nella cultura occidentale risale, penso, a Seneca. Se non è stato il primo a pensare “le voci di dentro”, è stato però colui che ha foggiato il nome. Seneca cioè ha collocato intus, ‘dentro’, intra nos ‘dentro di noi’, quel ‘deus’ che ci indica cosa è bene e cosa è male. Così scrive al giovane amico Lucilio nell’epistola 41 del quarto libro:
[…] prope est a te deus, tecum est, intus est. Ita dico, Lucili: sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorumque nostrorum observator et custos; hic prout a nobis tractatus est, ita nos ipse tractat. Bonus vero vir sine deo nemo est […].
Che in traduzione suona:
[…] dio è vicino a te, è con te, è dentro di te. Secondo me, Lucilio, c’è in noi uno spirito sacro, che osserva e sorveglia le nostre azioni, buone e cattive; a seconda di come noi lo trattiamo, lui stesso ci tratta. Nessun uomo virtuoso è senza dio […].Seneca, Lettere a Lucilio (Epistulae ad Lucilium, 62-65 d.C.), volume primo, libri I-XIII, con testo a fronte, introduzione, traduzione e note di Caterina Barone, con un saggio di Luciano Canfora, IV 41 1-2, Milano, Garzanti, 1989, pp. 198-99.
Dunque non è certo la giurisprudenza a insegnarci cosa siano il bene e il male, perché la Legge presuppone che i suoi soggetti lo sappiano già e si limita a presidiare il lago di ciò che è legale, il quale sta al buono come il lago sta all’oceano.
Del resto già il giovane Platone spiegava nell’Apologia di Socrate che il maestro distingueva il bene dal male non grazie all’esperienza, ma a un daimon (“un dèmone” che si manifesta come phonè, “una vocina”, ovviamente divina) che gli sussurrava di astenersi dal male:
ἐμοὶ δὲ τοῦτ᾽ ἔστιν ἐκ παιδὸς ἀρξάμενον, φωνή τις γιγνομένη, ἣ ὅταν γένηται, ἀεὶ ἀποτρέπει με τοῦτο ὃ ἂν μέλλω πράττειν, προτρέπει δὲ οὔποτε.
(Ciò che si manifesta in me fin da fanciullo è come una voce che, allorché si manifesta, mi dissuade sempre dal fare quello che sono sul punto di fare, e invece non mi incita mai a fare qualcosa).
Platone, Apologia di Socrate, 31 D, testo greco a fronte, a cura di Giovanni Reale, Milano, Rusconi, 1993, pp. 74-75
La vocina – sembra dire Platone – sussurrava a Socrate nel petto, a una sorta di orecchio interiore. Oppure dialogava con lui come un passante divino delle vie di una Atene celeste?
Lo studioso Corrado Bologna ha recentemente scandagliato il tema dell’interiorità nella cultura occidentale a partire dall’età medievale e ha identificato come promotori di questo nuovo inizio i filosofi del monastero di San Vittore a Parigi, i cosiddetti Vittorini, e in particolare ha indicato Ugo da San Vittore come l’inventore della letteratura silenziosa, mormorata tra sé e sé, a favorire appunto il colloquio interiore. S’intende che l’invenzione ha un suo modello, che è il Sant’Agostino delle Confessioni, che, dal suo canto, ben conosceva l’opera di Seneca e anche A sé stesso di Marco Aurelio, il testo scritto in greco a cui l’imperatore romano affidò i suoi dialoghi interiori. Dal monastero di San Vittore, ricorda Corrado Bologna, l’interiorità si riverbera nella lirica dei trovatori provenzali e dei poeti italiani che si ispirarono a loro, cioè San Francesco, Jacopone da Todi, Dante e i poeti stilnovisti che cantano ciò che sgorga dall’interno del loro cuore, ciò che “Amor… / ditta dentro” (Dante, Pg XXIV 53-54), arrivando a lambire la poesia autoriflessiva di Giacomo Leopardi.
Anche il XXI secolo – aggiungerei – ama molto la figura dell’interiorità. La religiosità e in particolare ciò che viene chiamato spiritualità ha una sua collocazione privilegiata – nell’opinione dei più – in uno spazio interiore, in un colloquio silenzioso con sé stessi che prende le forme della meditazione trascendentale, dell’esercizio spirituale, della preghiera silenziosa o comunitaria (la folla che prega all’unisono incarna pluralmente un’unica persona e la voce degli altri non fa che amplificare la voce del singolo). La spiritualità, spesso sentita come indipendente dalla religiosità, si risolve in un esercizio di ricerca della liberazione da angosce, da ansie, da squilibri psichici e psicosomatici che hanno sede nella propria interiorità, luogo – almeno per le persone d’Occidente – incerto, insoddisfatto, tormentato, assediato, squilibrato.
La nostra interiorità è un tesoro minacciato, da proteggere e “coccolare”, qualcosa di prezioso che gli “altri” non comprendono “fino in fondo”. Si direbbe che quanto più l’interiorità viene curata (anche con l’acquisto di beni materiali non essenziali) tanto più è insoddisfatta.
E se il problema fosse proprio l’immagine dell’interiorità? E se il pacco non contenesse alcun tesoro? “Dentro di noi” abbiamo organi come lo stomaco, la bile, l’intestino, il cuore, il cervello, il sangue, i nervi, il cervello. Il nostro “spirito”, il nostro “sé”, se guardiamo “dentro”, non lo troviamo. Troviamo un via vai intenso di flussi biologici, di impulsi elettrici.
Possiamo chiederci, con l’audacia degli esploratori, se non sia da mettere in discussione l’intero immaginario dell’interiorità. Proviamo dunque sperimentalmente a rigettare la diade pacco/tesoro. Accettiamo per ipotesi che “dentro di noi” non vi sia alcun prezioso “io”, che quando stiamo “soli con noi stessi” non stiamo affatto dialogando col nostro migliore amico, che “dentro” lo spazio sia occupato solo da ciò che materialmente lo occupa: organi interni, nervi, sangue. In tal caso, il nostro io non sarebbe contenuto da un pacco protettivo. Si dissolverebbe l’immagine usuale di un’interiorità sensibile, da proteggere, nobilmente pensosa, benché spesso non riconosciuta dal mondo. L’io paradossalmente si sposterebbe “fuori”, più precisamente nello spazio della relazione con un altro “io”, con innumerevoli altri “io”, con il mondo e le cose. L’ipotesi non è certo nuova. Opponendosi da hegeliano di sinistra alla filosofia dell’io proposta a inizio Ottocento da Fichte, il filosofo Ludwig Feuerbach parlò di un io che è tale solo quando e perché riesce a confrontarsi con un altro io. Solo se “io” riconosce in un altro soggetto che dice “io” un suo simile, si attiva veramente il suo essere “io”.
Der Mensch ist sich selbst zugleich Ich und Du: er kann sich selbst an die Stelle des Andern setzen, eben deßwegen / desswegen, weil ihm seine Gattung, sein Wesen, nicht nur seine Individualität Gegenstand ist.
(L’uomo è ad un tempo l’io e il tu di sé stesso; egli può rappresentare sé stesso al posto dell’altro appunto perché ha come oggetto il proprio genere, la propria essenza, e non esclusivamente la propria individualità).
Ludwig Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo (Das Wesen des Christenthums, 1841, ed. definitiva 1849), traduzione di Fabio Bazzani, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994, p. 2.
La dimensione in cui vive l’io potrebbe dunque non essere affatto l’interiorità (evocata per esempio dalla riflessione filosofica di Marco Aurelio intitolata significativamente A sé stesso, o dalle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar), bensì l’esteriorità, la superficialità, che è il punto contatto tra gli uomini ed il luogo dove ogni “io” nasce, proprio perché si confronta con altri io, vi si specchia, vi si riconosce o vi si oppone.
Ancora più paradossale è dover constatare che l’ateo Feuerbach su questo punto è sulla stessa posizione espressa dai Vangeli, almeno come la Chiesa la interpreta. Per il Cristo, l’uomo deve lasciarsi le cose alle spalle e “andare verso” il prossimo, gli altri in senso lato, verso il Cristo stesso. Il cristiano dovrebbe essere il primo a non sentire niente dentro di sé e a cercare di scoprire il proprio “io” nel “noi”, anzi, in ultima analisi, nel “voi” (samaritani, prostitute ecc.)
La poetessa Patrizia Cavalli, nella sua raccolta Sempre aperto teatro, da posizioni laiche, riesce meravigliosamente a esprime il concetto (dimostrando per l’ennesima volta che l’ateismo dialoga con il fenomeno religioso in modo assai stimolante e produttivo):
Ma voi siete cristiani?
Allora siate cristiani.
La sera si potrebbe.
È per questo potere che è la vita,
questo ritardo. Questi mazzi di fiori
non portati, poi in un solo colpo
in morte consegnati. Quanti fiori!
Eppure si potrebbe.
Uscire, varcare, raggiungere.
Patrizia Cavalli, Sempre aperto teatro, Torino, Einaudi, 1999, p. 86.
Sostituire l’immagine di un prezioso “io” contenuto nel pacco con un “io” che nasce solo dall’incontro con un altro “io” apre la porta a un ampliamento teologico del discorso. L’universo stesso può infatti essere letto come un uscire fuori di un “io”, dio, da sé per incontrare, creandolo, un altro “io”. Già Platone e poi Plotino, oltre al Genesi biblico, hanno posto il problema in questi termini.
Solo questa lettura della “esteriorità” dell’io dà conto del senso della vita. Letteralmente, il senso è una direzione. Un mondo attraversato da una fittissima rete di relazioni causa-effetto ma che galleggerebbe in un caos di insensatezza è un’immagine sconcertante che induce a chiedersi in quale modo un caos insensato possa generare al suo interno un cosmo sensato, qualcosa che chiamiamo addirittura universo, ovvero un sistema che addirittura ‘va in un’unica direzione’. Il senso viene creato dall’uscita di dio fuori da sé verso il mondo. Questa uscita da sé è l’atto d’amore da cui nasce tutto.
Una frase tratta da Tutto in un punto, una delle Cosmicomiche (1965) di Italo Calvino che prende le mosse dal “momento in cui tutta la materia dell’universo era concentrata in un punto solo, prima di cominciare a espandersi nello spazio” spiega bene questo concetto (un’altra occasione in cui uno scrittore laico mostra di saper tradurre in termini letterari una verità metafisica):
Si stava così bene tutti insieme, così bene, che qualcosa di straordinario doveva pur accadere. Bastò che a un certo momento lei [la signora Ph(i)Nko] dicesse: – Ragazzi, avessi un po’ di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle! – E in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi avanti e indietro con il mattarello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul gran mucchio di farina e uova che ingombrava il largo tagliere mentre le sue braccia impastavano impastavano, bianche e unte d’olio fin sopra al gomito; pensammo allo spazio che avrebbero occupato la farina, e il grano per fare la farina, e i campi per coltivare il grano, e le montagne da cui scendeva l’acqua per irrigare i campi, e i pascoli per le mandrie di vitelli che avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto perché il Sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perché dalle nubi di gas stellari il Sole si condensasse e bruciasse; alle quantità di stelle e galassie e ammassi galattici in fuga nello spazio che ci sarebbero volute per tener sospesa ogni galassia ogni nebula ogni sole ogni pianeta, e nello stesso tempo del pensarlo questo spazio inarrestabilmente si formava […].
Italo Calvino, Tutto in un punto, in Cosmicomiche, Torino, Einaudi, 1965
Tuttavia, come a sistole segue diastole, bisogna riconoscere che l’uscita da sé produce il germe del ritorno. Il mondo prodotto dall’uscita di dio fuori di sé sente la nostalgia di questa provenienza, come si può desumere dal discorso che Dante nel canto XVI del Purgatorio affida a Marco Lombardo:
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.
(L’anima di ogni uomo, che viene prima pensata da dio e poi creata, nascendo è capace di emozioni, ma intellettualmente non sa pressoché niente; l’unica sua conoscenza è che il suo creatore è gioioso e lei, ora che è stata creata e dunque si è staccata da dio, gli è “uscita di mano”, a dio vuole ritornare, cioè alla fonte di ogni gioia).
Dante, Purgatorio XVI, 85-90
Tra creatore e creatura nasce un legame che porta la creatura a evidenziare la propria provenienza. Un “io” non può essere sempre proiettato verso “fuori”, a volte sente la necessità di confermarsi come “figlio amato”, di trovare rifugio “dentro” chi lo ha creato.
Un figlio proviene da un grembo, da un “dentro”. Il pacco è il simbolo materiale di un grembo che produrrà quella speranza di felicità che, in ultima analisi, sono “io” e che viene rappresentato dagli infiniti pacchi che replicano all’infinito la struttura.
È necessario avere la “capacità negativa” di cui parlò John Keats (negative capability) per sopportare che lo “io” che vuole uscire è lo stesso “io” che vuole rimanere “solo con sé stesso”, che vuole protezione, conforto, che vuole “stare dentro il pacco”. Del resto, la relazione tra dio e creatura è conflittuale. Il figlio da un lato recalcitra a ubbidire ai dettami paterni, insuperbisce, vuole indipendenza. Dall’altro vuole essere rassicurato del suo ruolo di figlio “se non unico, almeno prediletto”, come suggeriva il poeta Umberto Saba.
Il tentativo sperimentale di rigettare la diade pacco/tesoro è dunque riuscito solo parzialmente. Tuttavia, contribuisce a pensare il pacco in una prospettiva nuova.
Se infatti da un lato il regalo nascosto dal pacco ricorda lo stare dentro il grembo materno (essere amato), dall’altro regalare un oggetto contenuto in un pacco è un uscire fuori da sé (amare). Il regalo nel pacco è dunque una riproduzione simbolica del doppio rapporto che si instaura tra creatore e creatura, per cui la creatura rimane figlia di chi l’ha creata, ma è anche a sua volta creatore, dunque estensione della funzione creatrice (braccio tecnico, razionale, logico, tecnologico).
Il mistero della creatura e del creatore è – nei limiti della presente riflessione – in larga parte insondabile. L’esperimento della sostituzione dell’interiorità con l’esteriorità pone però alcune domande che vale la pena di formulare. Perché è così difficile per la creatura riprodurre la generosa “uscita da sé” del suo creatore? Perché la creatura si rifugia “nel pacco”, intendendo l’amore come un “essere amato”, e non come un “amare”? Perché la creatura litiga col suo creatore? Perché insieme alla creatura – pur incondizionatamente amata dal creatore – nasce anche il mistero del male, della malattia, della morte?
Di certo, si può dire che per l’uomo uscire radicalmente dall’orizzonte del “pacco”, del “dentro”, della “interiorità” è al momento impossibile. Si può solo affiancargli la prospettiva della “esteriorità”, più matura, più alta, più gravida di felicità e sperare che rimangano in equilibro.