Poesie / Giuseppe Dolce

In questa sezione è presente una selezione di poesie e di prose poetiche che Giuseppe Dolce ha scritto dagli anni Ottanta del Novecento a oggi, dunque ancora prima che nascesse l’alias Giuseppe Dolce.
Apriamo con una poesia in endecasillabi sciolti molto recente ispirata alla Commedia, opera che amo, mi ossessiona, mi ispira da decenni (vedi Se mi chiami Amore).

 Progetto di lavoro

Finiti i sette giorni di quel viaggio
che Dante fece lungo l’Oltretomba,
Inferno Purgatorio e Paradiso
vennero sbaraccati in poche ore.
Manfredi Ulisse l’aquila Minosse
Virgilio Stazio e tutte le comparse
smontarono le scene e tonnellate
di legno cuoio e stracci colorati
– metafisicamente, è ovvio – vennero
stoccati in magazzini metafisici
dove, d’allora in poi inutilizzati
ancora giacciono e prendono polvere.
Si dovrà aspettare il Duemilacento,
ottavo centenario di quel viaggio,
O il Duemilatrecento, addirittura,
decimo centenario, cifra tonda,
perché si torni a metter su le scene
essendo nato un nuovo viaggiatore
che abbia il coraggio di vedere il mondo
dal lato della morte, del giudizio
teatrale, scenografico, ma proprio
per questo eterno, terribile e vero?
Le scene sono intatte, certamente,
ma l’Architetto sa che c’è bisogno
di un progetto radicalmente nuovo
non tolemaico e ormai neanche più
copernicano, o einsteiniano.
Gli attori precedenti non potranno
partecipare al nuovo allestimento
perché di loro s’è persa memoria
e non susciterebbero emozioni
né sul poeta, né sui suoi lettori
o spettatori, o quel che poi sarà.
Le maestranze d’allora, cioè le stesse
grandi figure incontrate da Dante,
soltanto con la fama imperitura
(che poi nei fatti è pure peritura)
vennero ripagati e a questi patti
nessuno è più disposto a lavorare.
I Mussolini, gli Hitler, i John Lennon,
i Papi Buoni, i mille Mostri Sacri
pretendono prebende, riscritture
della Storia, chiamate in correità,
assoluzioni, fumo, apoteosi.
Nessuno dei famosi è poi disposto
a lavorare come un operaio.
“Si chiamino dei tecnici informatici,
degli avatar, dei droni metafisici,”
pretendono anche i più loschi dannati.
Marcello Mastroianni, attore pigro,
e Massimo Troisi, grande comico,
apparsi in sogno a chi vi sta parlando,
a titolo d’esempio, hanno detto:
“Si fosse mai trattato di volare
fino al cielo di Venere o Mercurio
avremmo anche accettato la scrittura,
ma perderci al di là di Alpha Centauri
tra buchi neri e grigia antimateria,
ringraziamo di cuore, però no”.
Nessun poeta intanto ha progettato
un nuovo viaggio dentro l’Aldilà.
C’è tempo, sì, c’è tempo, c’illudiamo,
i nostri figlio, oppure i loro figli,
faranno il viaggio in sicurezza, in video.
Sì, c’illudiamo. Andare al teatro
della morte, delle ombre, e ritornare
è un rischio e in ogni tempo lo sarà.
Ma chi ne avrà il coraggio, ne vivrà:
per sé stesso, per tutti e anche per te.
(29 maggio 2021)



 Inchiesta sugli amanti sumeri

Si amarono davvero, poi, quei due,
come qualcuno ancora suggerisce?
Né Ur, né Uruk, né tanto meno Lagash
videro mai, lasciando campi e casa.
Solo una volta si misero in viaggio,
perché volevano sacrificare
al dio dell’acqua, a Enki, venerato
nella città di Eridu, spaventosa.
O forse è anch’essa solo una leggenda
che suggerisce di considerare
ogni vicenda umana come un fiume
che si perde nel mare dell’eterno?
Fu lui che di nascosto la baciò
reso ardito da un sorriso di lei,
oppure fu un’intesa di famiglie
a condannarli a un matrimonio odioso?
Preferisco pensare che quel bacio
(il primo, se non tutti i baci che
negli anni si dovettero scambiare)
li proiettò nel cielo degli amanti
con la forza del fuoco di un vulcano
e li inchiodò sulla volta celeste
come due stelle fisse, arrugginite
secolo dopo secolo, immortali.
Qualcuno dice che da allora mai
vissero amanti più folli di loro
e ogni altro amore non fa che ripetere
quello dei due sumeri senza nome.
Altri sostengono che in qualche luogo
continuino a baciarsi di nascosto,
perché ciò che è perfetto non finisce.
Altri ancora li hanno creduti il sogno
di un sognatore illuminato indiano,
l’invenzione naif di un dio maldestro,
due frammenti dell’anima del mondo,
casuali aggregazioni di molecole,
anime destinate al Paradiso
illuse di trovarlo qui in un bacio.
La maggioranza però si divide
tra chi li vede come personaggi
di una favola, una storia d’amore,
e chi pensa soltanto a superarli,
avendo noi moderni surclassato
gli antichi in ogni aspetto dell’umano,
magari con l’aiuto di una macchina.
Una domanda conclude l’inchiesta:
ma se quei due né furono né sono,
automaticamente noi saremo,
nell’esser nulla, ancora più perfetti?

Giuseppe Dolce, 31 gennaio 2008

Volevi un piatto di spaghetti

Volevi un piatto di spaghetti. Non arriva.
Nell’attesa, devi pagare il conto.
Aspetti. La cameriere è sparita.
Ancora dieci minuti e poi vado, ti dici.
Sono passati. Ne aspetti altri dieci.
Hai fame di spaghetti, ma niente da fare.
Cinque minuti ancora. Decidi di aspettare,
però l’attesa è intollerabile.
Ne passano cinque, poi altri cinque.
Capisci che nessuno ti porterà niente
e non riavrai i soldi indietro.
Ti alzi e te ne vai, insalutato ospite.
Alla stazione sta per partire il tuo treno,
chiudono le ultime porte, allunghi il passo.
Se non corri, è possibile che tu lo perda.
Qualcuno ti tocca la spalla, ti volti.
La cameriera t’ha inseguito, non te ne sei accorto.
Ha un piatto freddo in mano per te. Una bistecca.
Vorresti lamentarti del servizio, del cibo,
del momento, però hai fame e non hai tempo.
Mancano le posate, il piatto è troppo freddo.
Va bene, non fai storie, la prendi con le mani,
la bistecca, e la mangi a morsi mentre corri.
Hai il fiato corto e sogni i tuoi spaghetti.
Sai benissimo che la bistecca è tutto ciò che avrai.
Inghiottendo l’ultimo boccone, sali sul treno in corsa
e tossisci perché un pezzetto ti è andato per traverso.
Dal finestrino vedi un signore col coltello e la forchetta
in mano, il piatto vuoto sulle gambe, seduto.
Darebbe dieci anni di vita per una bistecca, ma non l’avrà,
perché la bistecca è stata data a te.

Giuseppe Dolce, 2006

Dedico questi versi all’accendino rotto

Dedico questi versi all’accendino rotto,
al pugile che crolla a terra,
ai violini scordati – suonati male,
alla carne macinata – scartata
anche dal peggior produttore
di hamburger del mondo,
a chi non ha passato la selezione,
neppure quella preliminare
(attori, segretarie, aspiranti
d’ogni genere, ridicoli amanti),
al fango che ha sporcato le scarpe nuove
e viene rimosso senza pietà,
a chiunque provi e non ce la fa
(non perché sia bello, tutto questo,
o io abbia il gusto del fallimento,
ma perché capita proprio a tutti
di sbagliare, sentire il suono sordo
del colpo andato storto, pof,
uovo marcio che cade a terra,
parola sbagliata al momento meno adatto
che guasta tutto, irreparabilmente).

Giuseppe Dolce, 1998-2006

Eramare (2008, per un progetto degli Artisti di Fortebraccio)

1
Così pensò il pescatore
Partito all’alba dalla spiaggia
Quando a sera la sua rete
Era ancora tutta vuota.

2
Tutto ricopriva l’acqua del mare,
Poi il mare si ritirò nel suo nido,
L’Oceano, trattenendo con sé
Quanto di terra poteva: il sale.

3
Sale è terra del mare,
Sale è male del mare,
Sale fa il mare arido,Sale, sapore del male.

4
La pace del mare fu l’indistinto,
Il pacifico caos, prima dei tempi,
Quando ogni cosa era mare,
Anche il fuoco, anche l’aria.

5
Così pensò il pescatore
Dalla rete vuota,
Il secondo giorno di pesca,
Solo, accecato dal sole.


6
Giardini di alghe, sinfonie di onde,
Cattedrali subacquee, rocce di fiamma,
Saggezza vertiginosa dei pesci,
Improvvisa nostalgia degli amori perduti.

7
Mare è male, è madre, è amare,
Madre è mare, è amare, è male,
Amare è male, è madre, è mare,
Male è mare, è amare, è madre.

8
Il mare si ritira in se stesso,
Marea, mare, mar, ma, m,
Poi si espande di nuovo,
M, ma, mar, mare, marea.

9
Così il pescatore allucinato
Dalla fame, dalla sete, dalla rabbia
Di non poter nutrire i suoi,
Il quinto giorno sotto il sole sognò.

10
M,  l’origine, la continuità, l’amore,
A, l’espansione, l’apertura, il vuoto,
R, il turbamento, la tempesta, l’odio,
E, la conclusione, il ritirarsi, il saluto.

11
MMMM    MARE      EEEE
AAAA       AMER      RRRR
RRRR       REMA      AAAA
EEEE       ERAM      MMMM

12
Che il mare resti vuoto,
Dominio dei pesci,
Non vi nascano fiori,
Non vi abiti l’uomo.

13
Il settimo giorno il pescatore
S’inabissò, vide tutti i pesci
Che non aveva potuto pescare
E un’ondina gli si avvicinò.


14
Il mare fu nulla, poi fu mare,
Poi vennero i pesci e poi l’uomo,
A trasformarlo in un fare:
Piroghe, barche, navi, petroliere.

15
Onde del fare, alte maree
Del fare, tempeste, gorghi,
Bonacce e maremoti del fare
Il male, fare male, far male.

16
La tua vita fu dolore,
Oggi comincia il tuo eterno presente,
In cui sarai vibrazione di luce,
Raggio che illumina l’oceano.

17
Il pescatore venne ripescato
Da una barca di turisti,
Ma muto come un pesce, muto
Come la verità, a nessuno mai disse nulla.


Giuseppe Dolce, 2008
________


Eramare venne scritta su commissione degli Artisti di Fortebraccio, cioè Massimo Bernardini, Boltar (Gianni Palmigiani), Giuseppe Scelfo e Silvio Costabile. Ciascuno degli artisti scelse alcune quartine cui ispirarsi per i loro quadri, che vennero esposti in una mostra a San Lorenzo. I visitatori vennero stimolati a presentare le loro fotografie, ispirate anch’essa a una quartina di Eramare. Nella mostra dunque vennero esposti i quadri degli Artisti di Fortebraccio e le foto del pubblico. Nella serata inaugurale venne letta la poesia con un accompagnamento musicale a cura di Giuliano Bernardini. Durante la mostra due esperte di art counseling coinvolsero il pubblico in attività artistiche legate al progetto degli Artisti di Fortebraccio, che mirava appunto a coinvolgere il pubblico nella creazione artistica.

I draghi e le rose

Aspetta, mi ricordo di un ricordo,
vedo uno specchio davanti a uno specchio.
No, mi sbagliavo, non ricordo niente,
nulla. Non vedo altro che il vedere.
Ma dietro la catena dei ricordi,
al di là della fuga degli specchi,
mi piacerebbe poter dire che
stai, come su una terra solidissima,
Tu, col tuo cappellino misto lana,
le labbra di ciliegia e il cuore pazzo
di un amore da favola coi draghi
che sposano le rose più scarlatte
in una cerimonia di chitarre.
Eri così, o spero che sarai.

4395,28 (dalla serie dei Numeri)

Se volete una prova dell’esistenza di Dio, 4395,28 è il vostro numero. A quale uomo, a quale diavolo, a quale nobilissimo nulla potrebbe interessare infatti un numero del genere? L’uomo gli preferirebbe 43.952.800, o 44 milioni cifra tonda. Il nulla direbbe che quelle poche migliaia non sono altro che un camuffamento dello zero (non si scomoderebbe neanche a dirlo, si capisce). Un diavolo se ne infischierebbe, come anche di 4395,71 (benché numero più elegante, col suo vario e armonioso corteo di numeri dispari che segue il solido quattro), di zero e d’ogni altra più nobile cosa.
Una prova dell’esistenza dei contatori del gas e dell’energia elettrica non è necessaria, ma 4395,28 sarebbe pronto a fornirvela. Nel buio della sua nicchia, magari nascosto da un quadretto orrendo (l’avete dipinto voi? perdonate la gaffe), o da una stampa di Van Gogh, il vostro contatore fugacemente considera 4395,28 e Dio sorride al passaggio del numero, come voi al vostro bimbo che attraversa la strada per venirvi incontro.
Appena comperata una calcolatrice da cinque euro, sono certo che anche voi, spingendo i tasti come viene viene per vedere se funziona, potreste visualizzare sullo schermo 4395,28. Immagino che in tal caso sarete sorpresi dal miracolo e comprenderete molte cose della vostra vita.




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