di Fabio De Propris
PRESENTAZIONE DEL LIBRO SE MI CHIAMI AMORE di Fabio De Propris
Scrissi questo testo teatrale per la presentazione del libro che si tenne presso la libreria “Bibli” di Roma, a via dei Fienaroli a Trastevere, venerdì 1° Marzo 2002 alle 21. Diana era interpretata da Almerica Schiavo, Luciano da Alessandro Luciano, due attori che furono bravissimi a calarsi nella parte. Io ero insieme a loro e leggevo le mie battute, interpretando me stesso. Deniz Özdoğan, che all’epoca stava finendo il primo anno d’Accademia d’Arte drammatica, lesse qualche pagina del libro. Accanto a noi c’erano Marino Sinibaldi e il professor Achille Tartaro, che non ringrazierò mai abbastanza per aver accettato di presentare il mio libro. La presenza dei due critici che espressero liberamente le loro opinioni sul libro durante la recita, ne aumentarono l’effetto di realtà. Coloro che assistettero alla presentazione, insomma, ebbero qualche difficoltà a capire che Diana e Luciano erano un’invenzione letteraria e non esistevano realmente. Io mi divertii molto e mi illudo che la serata fu piacevole per tutti.
PERSONAGGI
Diana Arceri, 45 anni, professoressa di scuola serale (v. pp. 47-48),
Luciano Caldonazzo, 25 anni, camionista (v. pp. 11-12)
La scena si svolge in una libreria, o in un locale. Il pubblico gira nella sala, guarda i libri e scambia quattro chiacchiere. Sul palco, o sul fondo della sala, c’è un tavolo con cinque sedie. Diana e Luciano sono confusi tra il pubblico. Diana è vestita con un’eleganza un po’ antiquata, Luciano porta i jeans e una giacca sportiva: non ha fatto in tempo a vestirsi apposta per la serata. Diana parla con qualche amica e qualche collega. Luciano viene presentato a qualcuno, ma parla poco, si sente quasi a disagio. Cerca di attaccare discorso con qualche coetanea. Una voce avverte che la presentazione comincia. Luciano si siede al tavolo da solo e si gode la scena: un pubblico è venuto lì per lui, in fondo. Giocherella con una copia del libro che era posata sul tavolo (nel libro c’è un foglio con una poesia), con la bottiglia d’acqua, con i bicchieri di plastica. Fa il solecchio, la luce negli occhi lo infastidisce. Prende in mano il microfono, che fino a quel momento non aveva considerato, ci picchietta sopra col dito, chiede ad alta voce se funziona, dice: “Prova, prova, uno due tre, ssà, ssà”. Non funziona, si alza e va verso la centralina elettrica, dice qualcosa al tecnico, poi torna a sedersi, dice di nuovo “Prova, prova”. Adesso il microfono funziona. Nel frattempo Diana si è seduta al tavolo. Ha tra le mani una cartella con vari fogli che rilegge rapidamente, per riordinare le idee. Non è affatto emozionata. Sembra la padrona di casa davanti agli ospiti di una festa. Si siedono accanto a Diana anche Fabio De Propris e Deniz, che leggerà alcune pagine del libro. Quando Luciano torna a sedersi, i due si guardano sorridendo. Guardano il pubblico. Comincia la presentazione.
INTERVENTO DEL PROF. ACHILLE TARTARO (DANTISTA)
INTERVENTO DI MARINO SINIBALDI (CONDUTTORE RADIOFONICO)
DIANA: Buonasera a tutti. Cominciamo innanzitutto a presentarci. Il mio nom de plume è Diana Arceri e qui, accanto a me…
LUCIANO: (dopo una pausa un po’ troppo lunga) Buonasera. Io dovrei essere Luciano Caldonazzo, anche se poi, insomma, se avete letto il libro… Ma anche se non l’avete letto è uguale… non è che so’ io che vi castigo se non leggete un libro…
DIANA: Però è meglio averlo letto, o cogliere quest’occasione per leggerlo, no?
LUCIANO: E te credo. “Ti” credo, cioè. Ho capito. È meglio che sto zitto, se no combino un… “casino” non si può dire, è vero?
DIANA: Io eviterei.
LUCIANO: Ecco, appunto (ride nervosamente). Forse è meglio che mi sto zitto proprio. Si ode lo squillo di un telefonino. Un altro. Un terzo. Il telefonino suona ancora, nessuno lo spegne.
DIANA: Invito gentilmente il possessore di questo allegro telefonino a spegnerlo e spero che tutti si siano ricordati di spegnere i propri, per non trasformare un incontro culturale in un happening – come dire? – musical-telefonico. (a Luciano) Dài, continua.
Segue una brevissima schermaglia tra i due (“No, no, parli lei, professoressa.” “Come desideri, capisco lo shock del pubblico.” “Eh, infatti.” “Quando vuoi, intervieni, comunque.” “Sì, sì, magari dopo.”)
DIANA: Bene. Anche se rispetto a Luciano ho una lunga consuetudine con il parlare davanti a un pubblico di adulti, insegnando da molti anni in un istituto tecnico serale, e dovrei forse parlare a braccio, mi perdonerete se in parte leggerò il mio intervento, che ho preparato in vista di un uditorio che immaginavo più esigente dei miei studenti – e dalle chiacchiere scambiate poco fa, penso che le cose stiano proprio così. (Prende i fogli dalla cartella e comincia a leggere). “Chi di voi ha già letto il libro saprà che la professoressa Diana Arceri, cioè io, e Luciano Caldonazzo, mio ex alunno alla scuola serale, di professione camionista…” (A Luciano) Sei sempre camionista, no
LUCIANO: Sì, sì. E chi me smove?
DIANA: “…di professione camionista, dicevo, siamo in qualche modo gli artefici del libro che presentiamo stasera, che è Se mi chiami Amore, pubblicato dall’editore Fazi nel novembre 2001. Dico questo senza nulla voler togliere all’estensore materiale delle pagine, che è, come tutti sapete, Fabio De Propris.”
GAG DEL TELEFONINO. Il telefonino di Luciano comincia a squillare. Luciano è imbarazzatissimo. Si tasta le tasche del giubbotto, non riesce a trovare subito il telefonino, che continua a squillare. Diana non dice nulla, ma ha un’espressione molto contrariata. Finalmente Luciano prende in mano il telefonino e, con grande stupore di Diana, invece di spegnerlo, risponde. Fa cenno con l’indice a Diana che impiegherà solo un minuto e con la mano fa un gesto che significa: “Andate pure avanti, torno subito.”
DIANA (riprende a leggere): “Stasera qui non è il caso di ripetere quello che nel libro il mio amico Fabio De Propris ha spiegato abbastanza chiaramente circa il ruolo che io e Luciano abbiamo avuto in quest’avventura. Per riassumere, potrei dire che Luciano è stato la mente e io il braccio, dal momento che lui ha avuto l’idea e io l’ho messa nero su bianco, ma forse sarei eccessivamente umile (cosa che comunque sarebbe in tono con lo spirito della nostra Beatrice). Correggendo il tiro, potrei dire che Luciano è stato il cuore e io la mente dell’operazione, ma questa sarebbe un’esagerazione, almeno per quel che riguarda me. Dopo lunga riflessione, vi propongo un’immagine che mi sembra efficace: fate conto che il libro sia un regalo che volevamo fare ai lettori. Luciano è stato quello che ha avuto l’idea di cosa comprare, io sono quella che è andata materialmente a comprare il regalo e Fabio quello che ha fatto la confezione con la carta colorata e il fiocco dorato”.
Luciano rientra in sala e torna a sedersi, mormorando: “No, era mia moglie, scusate, adesso l’ho spento.”
DIANA: (a Lorenzo): Per riassumere, ho detto che l’idea del libro è stata tua.
LORENZO (ride contento come un bambino, quasi non riesce a capacitarsi della cosa): Eh sì, in effetti… (accenna ai fogli che Diana stava leggendo) Ma continua, continua!
DIANA: Grazie. Detto questo, vorrei aggiungere qualcosa a proposito della figura dell’autore e del perché io stasera mi trovi qui nel ruolo più o meno di autore. C’è una poesia di Emily Dickinson in proposito che merita di essere letta:
Io non sono nessuno! Tu chi sei?
Anche tu sei nessuno?
Bene, allora saremo in due!
Ma non dirlo a nessuno!
Ci caccerebbero – e tu lo sai!
Che orrore essere Qualcuno!
Che volgarità – come una rana –
Che ripete il suo nome – tutto il mese di giugno
A un pantano che la sta ad ammirare!
(la poesia è del 1861, la traduzione è di Barbara Lanati, l’editore è Feltrinelli)
“Per una forma che non riesco a definire se non di PIGRIZIA, siamo abituati a pensare che l’unico artefice di un libro corrisponda al nome sopra il titolo. Non è così. E soprattutto anche in passato non era così. L’idea di collegare a un’opera artistica il proprio nome in fondo è piuttosto recente, limitata all’arte aristocratica e ha in sé qualcosa di romantico, perché richiama il concetto di genio individuale, unico e irripetibile, che suggella col suo nome, oggi diremmo col suo logo, la poesia, o il quadro o quello che ha prodotto. A me piace un’idea più democratica dell’arte. Mi piace pensare cioè a un’arte collettiva, prodotta da un gruppo di artisti che collaborano insieme. Ingmar Bergman, il grande regista svedese, nel suo libro Lanterna magica esprime la sua ammirazione per gli artisti anonimi del Medioevo che hanno prodotto le cattedrali gotiche, cioè uno dei capolavori dell’arte di tutti i tempi, lavorando a decine tutti insieme, ciascuno facendo la propria parte, a maggior gloria di Dio e non per ottenere la fama terrena. In fondo, prosegue Bergman, un film assomiglia a una cattedrale gotica. Anche nel cinema, infatti, c’è bisogno di decine e decine di persone, tutte in fondo ugualmente importanti, il regista, come gli attori, come i tecnici del suono, delle luci, i costumisti e così via. Mi sono spesso chiesta se anche la letteratura non sia un’arte collettiva e la risposta è senz’altro sì. E non penso solo a Luther Blissett, l’autore del romanzo storico “Q” o Wu Ming, nomi dietro cui si nasconde un insieme magmatico di scrittori contemporanei che rifiutano il copyright in nome di una logica hacker nata nel mondo della pirateria informatica, ma anche e soprattutto al fatto che le storie raccontate nascono nella notte dei tempi e si tramandano di generazione in generazione, oralmente o per iscritto, di modo che, quando uno scrittore arriva a fissarne una in modo convincente in un libro, “mette il suo nome sopra il titolo”, ma in realtà ha avuto una serie spesso molto lunga di collaboratori. Involontari, ma pur sempre collaboratori. C’è poi il caso di due scrittori che, all’insaputa l’uno dell’altro, scrivono la stessa storia. Di questi l’esempio più lampante sono io, che ogni volta che ho provato a scrivere qualcosa, mi sono accorta tempo dopo che qualcun altro l’aveva appena pubblicata, o l’aveva scritta anni, o decenni, o secoli prima, dieci volte meglio di me. È per questo che a un certo punto ho lasciato perdere. Ma alla base dell’intero discorso c’è quanto affermò un produttore cinematografico americano anni fa: Le storie che raccontiamo sono dieci in tutto. Ed è vero. Vorrei concludere il mio discorso aggiungendo a quanto scrive Fabio De Propris nel libro un particolare che può contribuire a spiegare il motivo per cui ho accettato di aiutare Luciano nel suo progetto. Tra i milleottocento libri che ho in casa…” (Smette di leggere) – il numero se lo è inventato Fabio, non li ho mai contati i miei libri –
LUCIANO: Saranno tremila, a di’ poco.
DIANA: Ma non lo so! Comunque Fabio s’è fatto prendere un po’ troppo la mano dalla fantasia su varie cose: per esempio ha scritto che da sei anni non ho più una vita sentimentale. Ecco, vi assicuro che non è così: ho una bambina di quattro anni, figuratevi un po’. Basta, però, queste sono cose personali. Se però poi IN PRIVATO Fabio mi spiega perché ha scritto quella cosa… Va be’, basta. (Riprende a leggere) “Tra i libri che ho in casa (non sono milleottocento) ce n’è uno di Giorgio Ficara che s’intitola Solitudini. Studi sulla letteratura italiana dal Duecento al Novecento, edito da Garzanti nel 1993. Quando lo lessi, a suo tempo, trascrissi sul mio quaderno di appunti una frase che diceva:
Dante (secondo uno sbalorditivo paradosso di Borges) scrive la Divina Commedia per poter pronunciare il nome di Beatrice.
Quando Luciano mi ha raccontato la sua idea, mi è tornata alla mente quella frase, e questa coincidenza mi ha affascinato. Da una parte infatti c’era Borges che dava una patente di nobiltà all’intuizione che Luciano aveva avuto, dall’altra c’era un mio alunno che aveva avuto un’idea ancora più sbalorditiva e paradossale di quella di Borges. Ecco, oltre a tutto quello che ha scritto Fabio, volevo aggiungere questa motivazione intellettuale che Fabio conosceva, ma che non ha inserito nel romanzo perché ‘troppo seria, troppo noiosa’, immagino. Ma non è una polemica. Comunque contemporaneamente al romanzo di Fabio, stesso anno, stesso mese (novembre 2001) l’editore Adelphi ha pubblicato in volume i Nove saggi danteschi di Borges. È una coincidenza speculare alla prima, che chiude un’esperienza che la prima aveva aperto. Finisco perciò il mio intervento leggendo un passo di Borges dai Nove saggi danteschi (pp. 94-95). L’articolo originale è del 1948. Dice così:
Morta Beatrice, perduta per sempre Beatrice, Dante giocò con la finzione di ritrovarla, per mitigare la tristezza; io personalmente penso che abbia edificato la triplice architettura del suo poema per introdurvi quell’incontro. (salto qualche frase…) Beatrice esistette infinitamente per Dante. Dante, molto poco, forse niente, per Beatrice; tutti noi siamo propensi, per pietà, per venerazione, a dimenticare questo penoso contrasto, indimenticabile per Dante.(…) Penso a Francesca e Paolo, uniti per sempre nel loro Inferno (“Questi, che mai da me non fia diviso”). Con un amore spaventoso, con angoscia, con ammirazione, con invidia, deve aver forgiato questo verso.
Spero di non essere stata prolissa. Grazie dell’attenzione.
LUCIANO: Be’, dopo che ha parlato la professoressa Arceri, adesso è difficile per me… È come col camion stare dietro a una Ferrari (vorrei un applauso d’incoraggiamento per la metafora).
FABIO: Sì, però è una similitudine.
LUCIANO: (minimizza) E vabbe’! Entriamo nel discorso. Tanto devo dire poche cose. Prima di tutto voglio dire che stasera per me è un sogno. Il libro c’è, esiste! Quasi non ci posso credere. Il fatto è che, dopo tutti i discorsi fatti, bellissimi, questo libro sta qui grazie a me. Insomma, l’idea di Beatrice ce l’ho avuta io. Solo che quando a uno gli viene un’idea, non è che si sforza – si sforza – si sforza e alla fine produce l’idea, se no sarebbero capaci tutti – scusate la similitudine, ma sarebbe come andare al bagno. No. Uno non ci pensa, sta per i fatti suoi e TAC – l’idea ti viene da sola. Insomma, non è merito mio.
FABIO: Però tu hai avuto la costanza di coltivarla questa idea.
LUCIANO: Ma sì, perché poi un’idea diventa un’ossessione. Io sono felice che il libro è stato pubblicato perché è come se l’ossessione ha trovato uno sfogo.
DIANA: Adesso alla ragazza dell’autogrill non ci pensi più?
LUCIANO: Professoré! ‘Sta domanda da te non me l’aspettavo! Così, davanti a tutti.
DIANA: Penso che per i lettori sia una cosa interessante da sapere.
LUCIANO: Ma che devo dire? Che ce penzo sempre? Che non ce penzo più? “Non ce penzo più”: va bene? Però Fabio è stato bravo a descrivere come se sente uno in certi momenti… Me sa che pure lui…
FABIO: Certe esperienze sono comuni.
LUCIANO: Comunque, signori, io c’ho una famiglia. Sì, nel libro c’è pure l’aspetto mistico, che è verissimo, io sono proprio così, per me l’idea che Beatrice vive fino alla vecchiaia e a Dante non gliela dà… m’è piovuta dal Cielo. Però c’è scritto pure che ho perso la testa per una barista de un autogrill, che vado a puttane… Eh, insomma! (Guarda Fabio con riprovazione) Io a mia moglie mica gliel’ho potuto dire che stasera venivo qui, che c’era la presentazione der libro. Anzi, la volete sapere tutta? (Brandisce il libro) Mi’ moje nun za manco che esiste, sto libro! E che ve devo dire? So’ i misteri della letteratura. Io prima nun leggevo quasi gnente, adesso invece che so diventato mezzo autore – anzi, un terzo de autore – piano piano, mi sto appassionando. E una poesia la voglio leggere pure io. È de Emily Dickinson pure questa, il libro me lo prestò Diana, ma poi me lo so comprato. I libri se devono comprà! (mostra il libro di Fabio, dentro il quale c’è il foglio con la poesia che sta per leggere).
Fabio ridacchia contento. Luciano gli dà di gomito.
LUCIANO: ‘A Fabio, te sto a ffà pubblicità, me devi dà la percentuale! (Cambiando tono di botto) Poesia! Sempre de Emily Dickinson.
Uno più uno – fanno uno
Basta con il due che –
È appropriato alle scuole –
Ma non per le scelte interiori –
La vita – appunto – o la morte –
Due – sarebbe troppo
Per la capacità di un’anima.
Dedico ‘sta poesia a Beatrice e a tutti quelli che non sanno fa’ bene i conti. Vi saluto a tutti, grazie, buonasera.
FABIO: Grazie a te! Non saprei cosa aggiungere. Per finire questo incontro, chiederei a Deniz di leggere un brano del libro.
DENIZ: Vorrei leggere una pagina del quarto capitolo. Legge da pag. 43 in fondo (“Capitò un paio di volte nell’anno del Signore 1283…”) fino a pag. 45 in alto (“…salutare la padrona di casa, voleva essere il primo.”)
Torna a Se mi chiami Amore