Ringrazio Marino Sinibaldi per avermi autorizzato a rendere pubblica la minuta del suo intervento critico alla presentazione del romanzo Se mi chiami Amore (Roma, Libreria Bibli di via dei Fienaroli, marzo 2002). Quello che si legge qui di seguito è un testo ancillare dell’esposizione orale e non è stato rivisto né modificato dal suo autore.
F.D.P. aprile 2021
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Fabio De Propris, Se mi chiami Amore 1° marzo 2002
La prima cosa cui questo libro mi ha fatto pensare è la libertà. La libertà dell’invenzione e dei personaggi, la libertà di chi scrive e di chi legge. Libertà diverse, naturalmente, tanto che tra le cose che il lettore invidia allo scrittore c’è in primo luogo, anzitutto la libertà. Noi lettori ne abbiamo molte, anche grandissime, fino a quella quasi assoluta di chiudere il libro, di rinnegarlo, persino di bruciarlo, come accade proprio in una di queste pagine. Non è una libertà proprio assoluta, per fortuna non lo è, perché comunque il libro continua a esistere (come accade proprio al libro che in queste pagine viene bruciato), ma insomma possiamo fare molte cose, chiuderlo, reinterpretarlo, deformarlo, fraintenderlo. Siamo molto liberi, la lettura è tra le attività umane più libere e inventive che esistano ma non potremo mai fare quello che può fare uno scrittore, non avremo mai la sua libertà di inventare personaggi, per esempio, o ancora di più la libertà davvero suprema di rubarli alla vita o ad altri scrittori, di farli vivere e incontrare. In questo libro, credo di doverlo almeno accennare, accade con grande libertà al personaggio più ingombrante e intoccabile della nostra letteratura, come dire? alla madrina, a colei che ha battezzato la nostra letteratura, alla Beatrice amata (? sì, forse amata) da Dante. Per la verità il libro incrocia due storie e si prende dunque anche questa ulteriore e suprema libertà, la somma libertà di fare incontrare e interagire il sommo Dante (e la somma Beatrice) e il camionista Luciano Caldonazzo, o meglio colui che si nasconde sotto questo pseudonimo. A capitoli alterni si racconta dunque la vera storia di Beatrice, cioè la vita della vera Beatrice, quella che riuscì a nascondere le tracce a tutti gli studiosi di Dante, la Beatrice Adimari che – questa la tesi del racconto – è riuscita a scomparire dietro l’irrilevante Bice Portinari, la “falsa Beatrice”, e il disperato tentativo dell’autodidatta camionista, il falso Luciano, di scrivere la verità di Dante e Beatrice. È chiaro? Non importa molto, perché è evidente che la verità non esiste, è un gioco di falsi reciproci e speculari, un vero gioco di specchi, anzi di sparizioni.
Prima di continuare, due avvertenze: non è così complicato né così tortuoso, questo libro. Si tratta in realtà di due storie, sì, un po’ complesse ma raccontate in modo molto diretto e nitido, persino semplice, con tutti gli elementi per comprenderle (almeno credo di averle comprese…). In secondo luogo va segnalato questo disinvolto riuso di grandi materiali e grandi personaggi letterari se non altro perché recentemente un altro dei libri più interessanti di giovani scrittori ha giocato con Tolstoj – Dante, Tolstoj, l’altezza è quella… (Nicola Lagioia, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj).
Naturalmente la letteratura e l’arte in generale lo hanno sempre fatto, hanno sempre riusato tutto in chiavi diverse, hanno usato e abusato di tutta la propria storia, il citazionismo non è affatto un’invenzione postmoderna. Vorrei solo segnalare che qui non c’è nulla di irriverente o irridente, non è evidentemente più tempo di provocare sfregiando coi baffi il bel volto della Gioconda. Il riuso è intellettuale, quasi un gioco cerebrale per illuminare meglio una grande questione. Illuminarla in modo un po’ sghembo e giocoso, appunto, forse per il timore, l’impossibilità, l’inutilità o la noia di affrontarla direttamente. La questione è nientemeno che il rapporto tra vita e letteratura, questione eterna (o noiosa, appunto, dipende dai punti di vista) che ogni generazione finisce prima o poi per porsi. Come è noto le risposte sono state molto diverse: dal grande modello di Goethe e il suo Wilhelm Meister con la vita riassorbita nella letteratura, alla rottura romantica, al dramma proprio di Tolstoj e alla grande crisi novecentesca dove c’è di tutto, vie di fuga vitalistiche e invece grandi romanzi, come quelli di Proust e Joyce, che nascono dalla cancellazione letterale o letteraria della vita, a Musil che è forse il punto più alto di questa crisi, ma insomma… Qui l’invenzione di una Beatrice che in cambio dell’immortalità dell’opera ottiene la propria cancellazione (cosa fa qui Beatrice? Forse possiamo dirlo: ottiene che Boccaccio in cambio di tutto quello che vuole sapere su Dante e la Commedia, cancelli ogni traccia della sua esistenza, della vera Beatrice, e la sostituisca con una Beatrice finta, la Portinari, appunto, che ha fatto abboccare quasi tutta la critica dantesca. Boccaccio accetta quella che è la sfida più alta per uno scrittore e così Beatrice scompare) sembra un modo ingegnoso e giocoso di salvare e la letteratura e la vita. Perché lo fa? Lei dice che perché la Commedia irradiasse tutta la sua luce bisognava farle buio intorno, ma rischia di essere una risposta convenzionale… Non so, a me è tornato in mente un piccolo racconto straordinario di Arno Schmidt che si chiama Tina o della immortalità credo sconosciuto perciò vi racconto quello che mi ricordo: […]
A pensarci bene è un racconto dantesco, chissà se è un caso. Comunque credo che se Beatrice ha scelto di scomparire, il motivo più o meno è questo.
Ma del resto tutto questo libro è sotto la stella della sparizione. Da un lato c’è la vita e forse l’amore di Dante che devono scomparire per lasciare posto all’opera. C’è la scena capitale nella quale alfine convinta e insieme ingannata da Dante gli si offre (in questo libro Beatrice attraversa una fase libertina, un po’ hippie, diciamo, qualcosa di irridente in realtà c’è…) chiude gli occhi e socchiude la bocca ma Dante niente, lui l’aveva già fatta morire sulla carta e mica per finta, sulla carta non significa per finta, per lui era morta perché così poteva scrivere, o forse doveva scrivere (se era viva, evidentemente avrebbe dovuto fare altro). Ma dall’altro lato del libro e del tempo e dello spazio di questo libro c’è il camionista Luciano e tutto il suo mondo che devono abbandonare il libro, rinunciarvi, perché si salvino il desiderio e la vita. È molto interessante che De Propris non dia risposte, anzi ne intraveda almeno due inconciliabili o forse, chissà, complementari. Poi magari lo faremo parlare su questo.
Che a me poi sembra l’aspetto più interessante. Perché qui non c’è solo un interrogarsi sulla letteratura, questo ingegnoso meccanismo di sparizioni speculari di vita e letteratura una dentro l’altra, una al posto dell’altra. C’è un interrogarsi su cosa sia davvero il desiderio e su cosa sia l’amore, c’è molto amore, non solo nel titolo di questo libro, ci sono molti amori diversi. Quello di Beatrice e Lorenzo che è una storia d’amore molto bella, con un finale apparentemente muto, questo non lo svelo, l’ultima frase di Lorenzo non la dico, non la saprei pronunciare… e poi certo quello di Dante per Beatrice per il quale il titolo del libro andrebbe letto come quella canzone (“e sottolineo se”), quello di Luciano il camionista e Stefania, della professoressa per Luciano e quello del camionista per una barista, il più ovvio, apparentemente, il più stereotipato (il camionista e la barista), in realtà il più inafferrabile, il più inconsistente e il più decisivo di tutti, l’ennesimo atto mancato, anzi il primo, quello che provoca tutto il resto, il primo atto mancato di un libro che ne è pieno. È un libro pieno di desideri e di sparizioni, di sentimenti e di annullamenti, di rinunce e di sostituzioni, di compensazioni. In questo lo trovo un libro molto contemporaneo. Perché è un libro di grandi passioni, ancora pieno di grandi passioni – l’amore e la letteratura – ma conscio dei loro limiti e delle loro contraddizioni, delle loro insufficienze in modo amaro e molto maturo (davvero non sembra il libro di uno scrittore giovane, di un signore ancora abbastanza giovane). È molto contemporaneo perché è un libro disincantato ma non scettico, è un libro che assume l’inafferrabilità della verità e dei sentimenti, sa che è tutto un gioco di specchi e di sparizioni, ma che nei sentimenti, nell’amore e nella letteratura crede molto, crede che in loro nome molto vada rischiato. In questa ambivalenza, in questa felice doppiezza, inevitabile doppiezza trovo la qualità migliore di questo libro molto intelligente, molto stimolante. (MARINO SINIBALDI)
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NOTE [di F.D.P.]: il racconto di Arno Schmidt (1914-1979) Tina o dell’immortalità (1958) venne pubblicato in traduzione italiana all’interno del volume Il Leviatano o il migliore dei mondi, a cura di Maria Teresa Mandalari, Milano, Linea d’ombra, 1991. Se ne può leggere un riassunto articolato – in tedesco – alla pagina: https://de.wikipedia.org/wiki/Tina_oder_%C3%BCber_die_Unsterblichkeit
La canzone che contiene il verso e sottolineo se s’intitola E se domani. Composta nel 1964 da Carlo Alberto Rossi, parole di Giorgio Calabrese, fu portata al successo nello stesso anno da Mina.